sabato 28 settembre 2013

Chiedi alla polvere, di J. Fante (la prefazione di C. Bukowski)

Ero giovane, saltavo i pasti, mi ubriacavo e mi sforzavo di diventare uno scrittore. Le mie letture andavo a farle alla biblioteca pubblica di Los Angeles, nel centro della città, ma niente di quello che leggevo aveva alcun rapporto con me, con le strade o con la gente che le percorreva. Mi sembrava che tutti giocassero con le parole e che i cosiddetti grandi scrittori non dicessero un accidenti di niente. Il loro stile era una mistura di sottigliezza, mestiere e forma e ciò che scrivevano veniva letto, appreso, assimilato e poi ritrasmesso a qualcun altro. Era un congegno funzionale, una "cultura della parola" assai scorrevole e prudente. Bisognava tornare agli scrittori russi precedenti alla rivoluzione per ritrovare il rischio e la passione. C'erano delle eccezioni, ma erano così poche che le si esaurivano in un attimo, per poi ritrovarsi a fissare file e file di libri di un'incredibile monotonia. A paragone degli scrittori del passato, i moderni non valevano gran che.
Tirai giù dagli scaffali un libro dopo l'altro. Perché nessuno diceva niente? Perché nessuno gridava?
Mi misi a cercare nelle altre sale della biblioteca. La sezione dei libri religiosi non era che un vasto acquitrinio, almeno per me. Passai al reparto filosofia. Scovai un paio di tedeschi dall'animo amaro che mi tennero allegro per un po', ma l'esperienza si esaurì ben presto. Provai con la matematica, ma era esattamente come la religione, mi scorreva sopra senza lasciare traccia. Ovunque cercassi, non trovavo niente che mi interessasse.
Mi rivolsi alla geologia e scoprii che era una materia curiosa, ma di scarso nutrimento.
Trovai alcuni libri di chirurgia e ne fui incuriosito: la terminologia era del tutto nuova e le illustrazioni mi sembravano fantastiche. Apprezzai soprattutto l'operazione sul mesocolon, la cui tecnica finì per diventarmi familiare.
Poi abbandonai la chirurgia e tornai nella sala principale, che ospitava la narrativa. (I giorni in cui ero a corto di vino, non andavo mai in biblioteca. La biblioteca era il posto ideale per quando non avevo niente da mangiare o da bere, o la padrona di casa mi stava alle costole per recuperare l'affitto arretrato. In biblioteca, almeno, c'erano i gabinetti). Ci ho visto una quantità di barboni, là dentro, per lo più addormentati sui loro libri.
Continuavo ad aggirarmi per la sala grande, tirando giù un libro dopo l'altro, leggendo qualche riga, a volte qualche pagina, per poi rimetterli al loro posto.
Poi, un giorno, ne presi uno e capii subito di essere arrivato in porto. Rimasi fermo per un attimo a leggere, poi mi portai il libro al tavolo con l'aria di uno che ha trovato l'oro nell'immondezzaio cittadino. Le parole scorrevano con facilità, in un flusso ininterrotto. Ognuna aveva la sua energia ed era seguita da un'altra simile. La sostanza di ogni frase dava forma alla pagina e l'insieme risultava come scavato dentro di essa. Ecco, finalmente, uno scrittore che non aveva paura delle emozioni. Ironia e dolore erano intrecciati tra loro con straordinaria semplicità. Quando cominciai a leggere quel libro mi parve che mi fosse capitato un miracolo, grande e inatteso.
Ero socio della biblioteca. Presi in prestito il libro e me lo portai in stanza, mi sdraiai sul letto e ripresi a leggerlo, ma prima ancora di finirlo capii che l'autore era riuscito a elaborare un suo stile particolare. Il libro era Ask the Dusk tornai in biblioteca in cerca di altri suoi libri. Ne trovai due: Dago Red e Wait until Spring, Bandini. Erano dello stesso tipo, scritti con le viscere, con il cuore per il cuore.
Sì, Fante ha avuto una grande influenza su di me. Non molto tempo dopo averlo scoperto, mi misi a vivere con una donna. Beveva come una spugna, anche più di me, e assieme facevamo delle litigate feroci, durante le quali le gridavo: "Non chiamarmi figlio di puttana! Io sono Bandini, Arturo Bandini!"
Fante era il mio Dio e io sapevo che gli dèi vanno lasciati in pace, non si andava a bussare alla loro porta. E tuttavia mi piaceva immaginare la casa dove era vissuto, in Angel's Flight, e illudermi che ci abitasse ancora. Ci passavo davanti quasi ogni giorno e mi chiedevo: è questa la finestra da cui è uscita Camilla? E' quella la porta dell'albergo? Quella la hall? Non l'ho mai saputo.
Ho riletto Ask the Dusk quest'anno, trentanove anni dopo la prima volta, e ho dovuto riconoscere che ha resistito al tempo, come tutte le altre opere di Fante. Questa, però, resta la mia preferita perché è con essa che ho scoperto la mia magia. Fante ha scritto altri libri oltre Dago Red e Wait until Spring, Bandini. e i loro titoli sono Full of Life e The Brotherhood of the Grape. Attualmente sta lavorando al suo nuovo romanzo, A Dream of Bunker Hill.
Per una serie di circostanze, quest'anno l'ho finalmente conosciuto. Ma la storia di John Fante non è tutta qui. E' la storia di un uomo fortunato e sfortunato in egual misura, di un uomo di raro coraggio naturale. Un giorno qualcuno la racconterà, ma ho la sensazione che lui non voglia che lo faccia qui. Dirò solo che, nel suo caso, linguaggio e personalità coincidono: entrambi sono forti, buoni e caldi.
E ora basta. Il libro è vostro.

Con un grazie a Marco Vichi che ieri mi ha parlato di questo libro e di questa introduzione. Credo che proverò a leggerla ai ragazzi.

Chiedi alla polvere / John Fante ; traduzione di Maria Giulia Castagnone ; prefazione di Charles Bukowski. - Milano : Marcos y Marcos, 1994. - 219 p. - (Gli alianti ; 22). - ISBN: 8871681053

Nessun commento: